Il trattato di Rapallo (12 novembre 1920) fu sottoscritto dall’Italia e dalla Jugoslavia per stabilire il confine definitivo tra i due Stati, ponendo fine al regime armistiziale ancora vigente fin dalla fine delle operazioni militari contro l’Austria-Ungheria, nel novembre 1918. A seguito del medesimo, il regno sabaudo poté formalizzare l’annessione delle province di Gorizia e Gradisca, del territorio di Trieste e dell’intera Istria, ad eccezione della città di Fiume, la quale ottenne il riconoscimento di uno status autonomi rispetto ai due regni limitrofi.
La frontiera tra Italia e regno dei Serbi, Croati e Sloveni (denominazione ufficiale del nuovo stato sorto sulle ceneri della defunta monarchia danubiana) subì alcuni piccoli ritocchi a vantaggio di quest’ultimo nella zona alpina di Longatico (Logatec), piccolo centro strategico, che fu abbandonato dalle autorità civili e militare italiane nei primi giorni del mese di marzo 1921 assieme ad altri insediamenti limitrofi.
Il 6 marzo si svolse la festa dell’annessione alla Jugoslavia ed il documento che proponiamo questo mese offre il punto di vista italiano dell’evento, caratterizzato da accenti nazionalistici alquanto vivaci, se si considera che una buona parte di parlanti sloveno e croato sarebbero rimasti soggetti alla sovranità dell’Italia. Un fatto, questo, accolto a Lubiana con manifestazioni di segno opposto alle manifestazioni di giubilo svoltesi nelle principali città della Venezia Giulia, che ad Aquileia il 23 marzo avrebbero raggiunto il massimo grado simbolico, non senza risvolti polemici, come l’aggressione verbale subita attuata da alcuni legionari e fascisti a danno del principe arcivescovo di Gorizia, lo sloveno Francesco B. Sedej, la cui presenza era stata ritenuta incompatibile con quel trionfo di italianità.
Ripercorrendo la relazione del commissario civile del neo costituito distretto politico di Idria, si legge che quel giorno Longatico fu invasa da una moltitudine di “sokolisti” (aderenti alla società sportiva “Sokol”, di matrice panslavista e liberale) provenienti da Lubiana e da altre località della Carniola slovena, nonché dal referente della rappresentanza jugoslava e futuro sindaco lubianese, Vladimir Ravnikar. Questi, nel suo discorso pubblico, inneggiò al diritto alla rappresaglia contro le violenze fasciste a danno della presenza slava a Trieste, culminate con l’incendio dell’hotel Balkan, perpetrato nel luglio dell’anno precedente.
Il rapporto menziona anche il positivo accoglimento delle rivendicazione da parte della stampa slovena e serba, riportando infine un significativo accenno alle lagnanze formalmente espresse dal governo italiano sugli incidenti che avevano contrassegnato il trasferimento dei poteri tra le autorità doganali italiane e jugoslave, avvenuto non senza tafferugli.
Lo stesso evento fu quindi percepito in modo antitetico dalle diverse parti, ambedue tuttavia accomunate dall’insoddisfazione nei confronti di un compromesso percepito come punitivo e vessatorio delle reciproche rivendicazioni politico-nazionali, catalizzate con successo da parte dei movimenti più estremisti. Basti pensare allo slogan dannunziano della “vittoria mutilata” che il fascismo nascente avrebbe fatto proprio.
Se il linguaggio della politica non aveva abbandonato i violenti toni della propaganda bellica, alcuni esponenti del mondo culturale goriziano avrebbero voluto inaugurare una nuova stagione di confronto ispirata a ben altri ideali, quali, ad esempio, la valenza universale dell’indagine intellettuale o il sano patriottismo che non degenera nel nazionalismo: è giusto qui ricordare l’originale celebrazione del secentenario dantesco del 1921 promossa da due goriziani, Giovanni Paternolli e Alojzij Res, culminata nella raccolta di saggi in lingua italiana e slovena pubblicata simultaneamente a Gorizia e Lubiana, dal titolo incisivamente eloquente: “Dante”.
A cent’anni di distanza, possiamo oggi ritenerci del tutto “immuni” dalle suggestioni ideologiche che animarono il dibattito politico del tempo?